Un tempo il “mito” si ritrovava tra gli dei, in seguito nelle ideologie e nei simboli di tali ideologie, crollate le ideologie (o per meglio dire alcune di esse, perché altre rimangono ben salde) non avrei mai pensato che i miti, che speso si tramutano in leggende, o le idee-forza che muovono la storia, in una determinata comunità, come la nostra, potessero venire identificati con infrastrutture, per altro “dissacranti” e “devastanti”.
Né posso credere che solo con la realizzazione di “grandi opere” si possa ridestare l’interesse in certe città largamente assuefatte alla gestione dell’esistente.
Città quasi rassegnate alle logiche derivanti dal voto di scambio, che sia esso individuale ché di gruppo, è sempre un elemento di distorsione nel rapporto tra cittadini e soggetti politici-istituzionale, e che, in ultima analisi, finisce con il tramutarsi, in un elemento di condizionamento per i vari contraenti.
Penso, invece, che bisognerebbe adoperarsi per superare quel “intrigante immobilismo” proprio di alcune realtà del sud, visto come prezzo per preservarle dal dilagante contagio della criminalità organizzata.
Anche perché nel frattempo, come viene testimoniato dalla triste realtà, che inutilmente si cerca di esorcizzare, il contagio è ormai diffuso e articolato, e l’immobilismo, di conseguenza, non può più giovare come alibi.
Per cui l’impegno non va rivolto ad ipotizzare miti che spesso ci fanno estraniare dalla realtà, nell’attesa fatalistica di un giorno, di un evento o di un’opera.
Ma l’impegno va rivolto ad una realtà da modificare, superando la cultura del progetto che è cultura dell’attesa e che può divenire cultura dell’astrazione, e che è sempre legata alla mera gestione del potere; per passare a diffondere una cultura dello sviluppo che non riferibile solo a contesti sociali ed economici, ma che miri ad una sorta di piccola rivoluzione culturale, tendente a far prendere sempre di più coscienza ai cittadini, alla gente ed alle singole individualità del loro ruolo partecipe e non delegante.
Una rivoluzione culturale che tenda sia nella società civile che nella cosiddetta società politica (che è sempre correlata con la società civile) a diffondere i valori etici e che faccia riscoprire il gusto di reclamare ed esigere “diritti”, e non di pietire “favori”.
Una rivoluzione culturale che guardi al vero mito-idea forza, dell’uomo e della donna artefici del loro destino, attuabile soltanto però in tutte le varie realtà in cui si possa agire senza padroni o “pastori” di vario tipo.
Questo ritengo sia la più stimolante grande opera per cui valga la pena di impegnarsi.
E non è lecito pensare che ciò sia impossibile, se volgiamo lo sguardo a quanto è accaduto in paesi soggetti in modo spietato a padroni-pastori.
Con quella meravigliosa riscoperta di valori riscontrabili anche in realtà dove non mancavano certo le grandi opere di regime a significazione del potere ma non della potenza.
Perché il “potere” deriva sempre da un esercizio arbitrario che si può riscontrare nella forza o nella violenza o in forme di persuasione occulta come l’utilizzo distorto dei mass media.
La “potenza” si fonda invece sui valori più solidi e più autentici della storia dell’umanità, quali la libertà intesa prima come conquista interiore e poi esteriore e non come fatto edonistico, la dignità, la tolleranza e la convivenza civile, e l’etica della responsabilità, ed è la significazione e l’affermazione di tali valori che danno sostanza alla democrazia, e non un pluralismo che talvolta si fonde su oligarchie di vario genere.
E certe realtà urbane del sud non penso abbiano bisogno di eroi o di messia taumaturghi, perché tali soggetti che si “autodefiniscono”, si sentono portatori di certezze assolute, di dogmi assolutisti e di un manicheismo demonizzante, muovendosi sempre all’insegna di motivazioni irrazionali.
E non tocca certo a me ricordare che il sonno della ragione genera “quasi sempre” i mostri o i mostriciattoli.
Forse le mie semplici riflessioni possono sembrare in parte eccessivamente metapolitiche ed estranee alla realtà fattuale, o come un esercizio retorico per sfuggire alla stessa realtà. Ma è proprio la tristezza della realtà contingente in cui siamo immersi nei vari livelli a partire da quello locale che ci richiama alla non rassegnazione, ed alla resistenza morale, culturale e civica, ispirandoci a quell’empito rivoluzionario nel senso nobile del termine, richiamato dal grande meridionalista incompreso Guido Dorso, che auspicava l’azione di cento-mille uomini e donne temperati nell’acciaio ed imbevuti dallo spirito e dalla linfa della loro amara, ma unica, terra.